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19 May 2024
titolo legami

Le idee e le culture dell'emigrazione

Direttore: Lucio Gregoretti

Mušič, il viaggio della vita

Cultura & identità

La straordinaria avventura artistica e umana di Zoran Mušič, che seppe raccontare i sentimenti e le proprie emozioni da Marco Polo agli orrori di Dakau.

di LUCIO GREGORETTI

Zoran Mušič “Dipingo per me, perché lo devo fare. Per me è un po’ come respirare. Se mi vietassero di dipingere mi toglierebbero l’aria… Per me la pittura deve essere un’emozione, deve avere cioè alla sua origine una specie di choc. Si tratta di un fatto fisico che vorrei si trasformasse in apparizione. La realtà si trasfigura o, almeno, cerco di trasfigurarla in fatto poetico. Ma come si fa a spiegare? Un quadro è qualcosa che non si sa come nasca: viene fuori dal di dentro come un momento irripetibile”.

Zoran Mušič nel rappresentare il senso intimo della sua esperienza artistica affronta l’interrogativo, quasi un’invocazione, che da sempre tormenta i grandi artisti. Si ritrovano gli echi di Frida Kahlo, o meglio Magdalena Frida Carmen Kahlo Calderón, considerata la più grande pittrice messicana: “Dipingo per me stessa perché trascorro molto tempo da sola e perché sono il soggetto che conosco meglio. Ho sempre dipinto la mia realtà, non i miei sogni”, o quelli del grande Picasso che declama “La pittura è più forte di me; mi costringe a dipingere come vuole lei”, tutti alla ricerca delle origini della corrente magica che ispira la loro sensibilità e la loro creatività, fonte della spinta interiore che è il tratto distintivo che discrimina il capolavoro dalla banalità, dall’opera senza respiro.

Quando nel 1950 a Zoran Mušič viene affidato il compito di partecipare all’arredo dei prestigiosi ambienti di prima classe del transatlantico Augustus, l’artista pensa di proporre il magnetismo di una storia simbolo, almeno in Europa, di ogni viaggio: quell’antica esplorazione di Marco Polo, il mercante veneziano che tra il 1271 e il 1295 si avventura in luoghi quasi del tutto sconosciuti, l’Asia centrale e la Cina, fornendone un resoconto dettagliato ne Il Milione, lungo un itinerario pieno di avventure e di sorprese che sarebbe divenuto poi noto con il nome di “Via della seta”.

Basilica di San Marco

ZORAN MUŠIČ. Basilica di San Marco (1948). Acquarello su carta, Trieste, collezione privata.

 

Zoran Mušič, nato nel 1907 a Boccavizza, Bukovica in sloveno, alla periferia di Gorizia, allora ha appena compiuto quarantatré anni e ha alle spalle un’esperienza di vita complessa e per tanti versi tormentata. Dopo aver completato l’Accademia di Belle Arti di Zagabria, con i pochi mezzi di cui dispone nel 1935 va a vivere a Madrid, frequenta il Prado, esegue molte copie di Goya, poi si sposta a Toledo per poter studiare la pittura di El Greco. Allo scoppio della guerra civile lascia la Spagna e si reca all’isola di Curzola in Dalmazia, poi a Lubiana e a Venezia.

Siamo alla vigilia della sua deportazione a Dachau, alla fine del novembre 1944, dove è registrato come prigioniero numero 128231 e dove, in condizioni estreme, ridotto quasi a cadavere, testimonia la disperazione umana con schizzi e disegni. Con inchiostro nascosto e allungato con acqua per farlo durare, foglietti piegati occultati sotto la camicia, carte e penne sottratte ai laboratori ove lavora con gli altri prigionieri, realizza quasi duecento bozzetti. Riesce e salvarne solo trentacinque, ventiquattro dei quali sono oggi raccolti nel Museo Revoltella di Trieste.

Quando nel 1946, esausto ed ammalato, viene liberato dagli americani e trasportato a Lubiana, rischia un nuovo arresto da parte del regime comunista di Tito che gli rimprovera di non aver fatto parte, nel campo di prigionia, della cellula del partito. Si salva perché riesce fuggire dall’ospedale dove è ricoverato, nascosto in un camion che trasporta i giornali a Gorizia diventata zona sotto il controllo alleato.

Nel 1950, assieme a Zoran Mušič, per l’abbellimento della Augustus vengono chiamati alcuni dei maggiori artisti dell’epoca: Dino Predonzani, Nicolò Costanzi, Emanuele Luzzati, Tranquillo Marangoni, Gianni Russian, Carlo Sbisà e Marcello Mascherini. Quest’ultimo, definito anche lo “scultore dei transatlantici” per la ricchezza delle sue tante creazioni navali, per l’Augustus realizza ben venti sculture decorative.

ZORAN MUŠIČ, Motivo Dalmata

ZORAN MUŠIČ. Motivo Dalmata (1950). Acquerello su carta, Trieste, collezione privata.

 

Questi lavori sono uno spaccato della filosofia dei grandi architetti arredatori dei transatlantici italiani di quel tempo – si pensi in particolare a Gio Ponti – che interpretano le navi come veri e propri musei e gallerie d’arte galleggianti. Le motonavi che solcano gli oceani assumono il ruolo di “ambasciatrici” all’estero, non solo dell’avanguardia tecnologica dei cantieri italiani, ma anche dell’alta qualità del design degli arredi, dell’arte e dell’artigianato artistico, prestigiose vetrine della genialità e della creatività italiana. Per l’abbellimento della sala di soggiorno di prima classe dell’Augustus, Zoran Music sceglie non solo il tema più appropriato, ma anche una tecnica singolare: realizza un arazzo, un pannello ricamato in fili di seta dalle dimensioni straordinarie: quasi 9 metri di lunghezza (852 cm) e oltre 2 di altezza (206 cm).

Alle spalle l’artista ha una serie di esposizioni di successo. Ma soprattutto, nel 1948, ha esposto due quadri con grande apprezzamento della critica per la prima volta alla Biennale di Venezia. Dopo la fuga dalla Jugoslavia e un breve soggiorno dai parenti a Gorizia, nel 1946 era tornato in quella Venezia da cui era stato strappato nella stagione dell’internamento a Dachau. Nello splendore della città della laguna, Mušič si tuffa come a cercare un bagno rigeneratore di un “ritorno alla vita”, di colore e di luce risanatrice. Nascono le vedute e i paesaggi che si rispecchiano nella serie degli acquerelli ritraenti le Zattere, il Canale della Giudecca, il Canal Grande e Rialto, fra i quali spiccano quelli dedicati alla Basilica di San Marco e al Palazzo Ducale.

L’atmosfera luminosa evanescente, da sogno, degli splendidi acquerelli veneziani eseguiti tra il 1947 e il 1949 è fonte di ispirazione per il Marco Polo del tempo della Serenissima del pannello dell’Augustus. Durante un viaggio a Roma ha anche modo di contemplare le splendide distese delle colline e dei campi della Toscana e dell’Umbria, in particolare le colline senesi da lui rappresentate in un’aura incantata e fiabesca che ricorda Simone Martini e che evoca una dimensione fuori dal tempo ove il male non ha accesso e ove tutto è quiete e silenzio. Motivi ripresi nella rappresentazione successiva del viaggio verso la Cina.  Nel frattempo, arriva la vincita del “Premio Parigi” a Cortina d’Ampezzo: il primo vero riconoscimento al valore della sua arte.

Autoritratto

ZORAN MUŠIČ. Autoritratto.

 

Nel vortice di queste esperienze fra il 1950 e il 1951 prende vita la grazia dei colori e delle magiche figure del grande arazzo navale dedicato all’avventura di Marco Polo. È l’anno1271 quando l’esploratore veneziano parte nel suo viaggio, prima tappa la Palestina, dove recupera la lampada contenente l’olio del Santo Sepolcro da portare alla corte del Kublai Khan, il condottiero mongolo fondatore del primo Impero cinese della Dinastia Yuan, noto come l’ultimo dei Gran Khan. Si inoltra, quindi, nelle zone interne dell’Anatolia, procede attraverso l’Armenia e l’Iran, l’Afghanistan e il Turkmenistan, sino alla faticosa traversata del Deserto dei Gobi e, finalmente, dopo tre anni e mezzo, ecco l’arrivo dal sultano, che lo riceve con tutti gli onori.

Ma è possibile ricreare un’esperienza così fuori dal comune, piena di seduzioni e prodigi, quasi fantastici, con tutti gli affanni e le inquietudini e le armonie e il fascino di scenari che si susseguono in questo viaggio e il piacere e lo stupore del traguardo? Zoran Mušič regala ai viaggiatori dell’Augustus la suggestione di quell’avventura lontana nel tempo, che incanta ancora e rimane intatta tutt’ora nei segni e nelle sfumature di quel grande arazzo. Il racconto si dipana da sinistra verso destra e si sviluppa in cinque riquadri, quattro dei quali su due livelli, accompagnati in alto e in basso da alcune iscrizioni tratte da Il Milione.

In alto, la partenza sullo sfondo di una adorabile Venezia con il richiamo da Il Milione: “Qui comincia il viaggio di Messer Marco Polo de Vinegia il quale racconta molte novitadi della Tartaria e daltri paesi assai”; in basso, i cavallini che corrono tra le colline, mentre un’alta torre separa i due riquadri successivi, nei quali dall’alto spuntano alcuni cavalieri messaggeri del Gran Khan, e sotto il Gran Khan disteso su un giaciglio; nella scena che segue un gruppo di cavalli impauriti e morenti richiamano la battaglia del sultano contro il nobile Najam; a seguire in alto una scena di caccia e in basso un nudo femminile disteso su un giaciglio, a rappresentare le cento donzelle scelte per la sua corte; infine il palazzo del Gran Khan con tre gondole pronte alla partenza e, per ultimo, in basso una galea veneziana con a bordo Marco Polo, il padre Nicolò e lo zio Matteo che fanno ritorno a Venezia.

Nell’arazzo di Mušič, regna sovrana l’armonia che fa da sfondo all’insolita esperienza, mentre riecheggiano i segni dei temi che lo contraddistinguono e a cui rimane sempre intimamente legato: il paesaggio brullo nobilitato dai colori e i cavallini, che dipinge a memoria. Un legame che, si fonda sul pensiero quasi ossessivo per la sua terra e per i luoghi del passato, come è impresso nella sua coscienza e che Mušič riassume osservando: “Non dipingo il paesaggio ma le origini”.

Zoran Mušič, pannello di seta sull’avventura di Marco Polo

ZORAN MUŠIČ. Il grande pannello di seta che racconta l’avventura di Marco Polo.

 

La storia di Marco Polo impegna Zoran Mušič per due anni, ed è certo che vi contribuisse anche la moglie Ida Cadorin-Barbarigo, sposata a Venezia nel settembre del 1949. Dal 1951, completato il pannello, per altri 54 anni – muore infatti nel 2005 a 96 anni – continua a essere un protagonista eclettico e sempre più apprezzato dell’arte del Novecento. Nel 1952 si sposta a Parigi e si dedica a una vasta serie di dipinti in cui ritornano le visioni dalmate con le donne nei loro tipici costumi e le inesauste variazioni del soggetto iconografico dei cavallini e degli asinelli, cavalli, i muretti a secco, le donne che si recano al mercato sotto il sole, emblemi
di una terra povera eppure ricchissima nella bellezza catturata dall’occhio dell’artista. Dalla Galerie de France riceve un contratto che gli permette di stabilirsi e lavorare nella capitale francese. L’anno dopo espone a New York nella galleria di una giovane collezionista americana, Patty Birch. Dal 1957 al 1961, durante alcuni soggiorni in Dalmazia, inizia il nuovo ciclo pittorico delle Terre, e interpreta nuovi moduli espressivi: quadri con unico soggetto il paesaggio carsico privato completamente dell’elemento figurativo.

La scrittrice Alessandra Scarino, autrice fra l’altro de Il magico viaggio di Vito Timmel, artista le cui tele fanno bella mostra al Museo della Cantieristica di Monfalcone, ha interpretato acutamente la personalità dell’artista analizzandone le opere: “L’esigenza di asciuttezza del disegno e la scelta di colori delicati e soffusi come l’ocra, il malva, il rosa antico e il dorato nascono da una stretta identificazione con il carattere schivo e appartato di Mušič, uomo misurato nella parola e nel gesto, orientato alla ricerca dell’equilibrio e della verità delle cose. L’insistenza su determinati motivi, come i cavallini dalmati e la serie delle nasse, studiati e riproposti in tante minime varianti, nasce da uno scavo oltre la superficie delle cose alla ricerca di quel quid segreto che, anche nella povertà e semplicità dell’apparenza, le rende uniche, ricche e preziose. Niente va perduto, neanche un granello di polvere, nella pittura di Music, collezionista paziente di istantanee catturate e fissate per sempre nella loro stessa fugacità commista con l’eterno. Così l’atto stesso del dipingere diventa atto liturgico che concilia l’anima del pittore con l’elemento divino”.

Non siamo gli ultimi

ZORAN MUŠIČ. Non siamo gli ultimi (1973). Pastelli cerosi su carta, Trieste, collezione privata.

 

Vent’anni dopo l’arazzo dedicato a Marco Polo, nel 1970 Zoran Mušič affronta un passaggio artistico importante con il ciclo pittorico Non siamo gli ultimi. Prende come titolo la frase con la quale i prigionieri di Dachau esprimevano la speranza che mai più un inferno come quello si potesse ripetere, per dare rappresentazione alle emozioni che lo spingono a portare alla sua memoria un periodo inquietante come monito di quell’orrore. Spettri di un passato lontano che rimane nella pelle viva dell’artista, che li rievoca con tutte le asprezze e le crudeltà dei corpi dilaniati, impiccati e torturati, gettati come animali dentro casse di legno con le bocche spalancate da cui traspare vivido lo spasimo, il supplizio e il disumano martirio. Viene a galla la profondità della sofferenza e del turbamento interiore.

Lo stesso Mušič spiega il divenire dei suoi sentimenti e del suo lavoro nella maniera più intima e incisiva in una testimonianza raccolta da una grande storica e critica d’arte, Marilena Pasquali, nel 1998: “Mi domandavo perché sono qui? Di avermi fatto vivere tutto questo avrà forse un senso, uno scopo? È forse un Purgatorio quest’universo di non senso? […] Ho imparato a vedere le cose in un altro modo. […] Non è che per reazione agli orrori abbia riscoperto la felice infanzia. I cavallini, i paesaggi dalmati, le donne dalmate c’erano anche prima. Ma dopo ho potuto vedere tutto altrimenti. Dopo le visioni di cadaveri, spogli tutti i requisiti esterni di tutto il superfluo, privi di maschera dell’ipocrisia, delle distinzioni di cui si coprono gli uomini e la società – credo di aver scoperto la verità, di aver capito la verità – la terribile e tragica verità che mi è stato dato di toccare”.

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