Noi che una patria ce l’abbiamo, noi che una casa ce l’abbiamo, sforziamoci di provare almeno un po’ di solidarietà.
di EDOARDO CRISAFULLI, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Kiev
Mia nonna paterna, Edwige Schwartze, mi raccontava spesso la storia della nostra famiglia: „Quand’ero bambina vivevamo in pace in Transilvania, la nostra Siebenbürgen, nel cuore dell’Impero austro-ungarico. Eravamo di lingua e cultura tedesca, ma ci sentivamo ungheresi. Eravamo felici e sereni.
Poi deflagrò quell’orribile guerra, nel 1914. Pochi anni dopo, con la sconfitta degli Imperi centrali, il nostro mondo crollò. Iniziarono i disordini e si cominciò a patire la fame, a noi sconosciuta fino ad allora. La Transilvania venne ceduta alla Romania, che aveva combattuto contro l’Impero austro-ungarico. L’Ungheria precipitò nel caos, sembrava che stesse per scoppiare una rivoluzione.
Il bolscevico Bela Kuhn andò al potere e proclamò la Repubblica sovietica ungherese. Lì iniziò il nostro calvario. Eravamo benestanti e perdemmo tutto, dalla mattina alla sera. Vivevamo nel terrore. Tuo bisnonno Emil fu imprigionato e obbligato ai lavori forzati dai comunisti ungheresi. Era un borghese, un proprietario terriero e andava punito in maniera esemplare. Sottoposto a crudeli privazioni, si ammalò gravemente.”

„Intanto cominciava un’altra guerra, questa volta tra Ungheria, Cecosolovacchia e Romania: Bela Kuhn, nel 1919, occupò parte della Slovacchia e tentò di riprendersi la Transilvania. Ma non ci riuscì. Senza più proprietà e reddito, ora eravamo anche apolidi, senza patria. In fondo, continuavamo a sentirci ungheresi di etnia tedesca. Ma l’Ungheria era in mano ai bolscevichi. E la Transilvania era rumena.
Decidemmo di fuggire da una terra che la nostra gente abitava da secoli. Portammo via con noi poche cose, stipate su un carretto: qualche mobiletto, qualche ricordo, gli abiti, l’argenteria. Iniziò così un lungo e terrificante viaggio: il papà era ammalato e la mamma doveva occuparsi di sei figli, il più piccolo aveva tre anni, il più grande dodici. Iniziarono le peregrinazioni nei Balcani, nei territori di un Impero in disfacimento, dove emergevano gli odi interetnici a lungo repressi.”

„Subimmo soprusi e crudeltà da parte di tutti: dai rumeni (in quanto ungheresi), dai serbi (in quanto ‘austriaci’), dai croati (in quanto protestanti). Finché non arrivammo ad Abbazia, che era da poco passata all’Italia. La conoscevamo bene perché era una importante meta turistica, come lo è Riccione oggi.
Ci sistemiamo in una pensioncina e non sappiamo più a che santo votarci. I nostri soldi sono carta straccia. L’argenteria l’abbiamo già venduta. Papà si aggrava. Mamma ha i nervi a pezzi. I carabinieri italiani ci hanno appena controllato i nostri documenti. Abbiamo il batticuore: ci maltratteranno anche loro? Ci cacceranno via anche loro? Capiamo poco di quel che ci dicono.
Ci paiono così strani, con quelle divise buffe e quell’aria così poco marziale. Guardano i bambini e confabulano fra di loro. Noi ci stringiamo tutti assieme. Se ne vanno. Dopo una mezz’oretta si sente bussare alla porta. I carabinieri sono tornati. Mamma ha un tonfo al cuore. Apre la porta, tenendo la mia sorellina Ruth in braccio. I carabinieri gesticolano indicando dei contenitori di latta che hanno con sé. È il latte per i bambini, dicono. Noi scoppiamo a piangere. È la prima volta che veniamo trattati con umanità.
Poco dopo papà ha una crisi e viene ricoverato in ospedale. Sul letto di morte dice a mamma: ‘Lasciate perdere l’Austria. Rifugiatevi in Italia. Sono certo che vi troverete bene. Gli italiani sono un popolo che ha cuore’.”

Se non fosse stato per quell’episodio di generosità io probabilmente non sarei mai nato. La mia famiglia ungaro-tedesca sarebbe finita a Vienna, com’era nelle intenzioni iniziali. Mia nonna invece si stabilì in Italia con tutta la famiglia e sposò un siciliano, così nacque mio padre. La scelta non fu facile: all’epoca una ragazza ungaro-tedesca, per giunta protestante, agli occhi di un siciliano appariva esotica quanto una cinese o una afgana oggi.
Mia nonna è rimasta una profuga nell’animo per tutta la vita. Non ha mai voluto possedere una casa. Non ha mai smesso di rimpiangere la sua amata Transilvania. Il dramma dei profughi lo devi toccare con mano, per capirlo. Io l’ho vissuto attraverso le narrazioni sofferte di mia nonna.
Io, nipote di profughi, non posso dimenticare che senza la generosità degli italiani non sarei neppure nato. Io, nipote di profughi, non posso dimenticare che senza la generosità degli italiani non sarei neppure nato. Voglio tramandare questa mia storia
famigliare.
Noi che una patria, per quanto sgangherata, ce l’abbiamo; noi che una casa, pur modesta, ce l’abbiamo, sforziamoci di provare almeno un po’ di solidarietà.
Su concessione dell’autore Edoardo Crisafulli.
Pubblicato sul blog della Fondazione Nenni (fondazionenenni.blog).

PRIMA DELL’ABISSO, A KIEV IL 15 FEBBRAIO 2022. La mostra italo-ucraina Dante’s Vision, promossa dal professor Giorgio Grasso a Kiev. Gli artisti ucraini contemporanei interpretano la Divina Commedia. Alla fine dello scorso anno il prof. Grasso ha bandito un concorso tra artisti italiani e ucraini per partecipare a una mostra collettiva dedicata proprio alla Divina Commedia, sulla base della quale ha selezionato le migliori opere di pittura, scultura, fotografia e video arte. Il 15 febbraio a Kiev, prima dell’abisso.